EPOCA NURAGICA
La storia di Costa Rei e delle aree circostanti è antica, con testimonianze millenarie.
La Sardegna è rinomata per la civiltà nuragica, una cultura preistorica che ha lasciato numerosi segni, tra cui i nuraghi, antiche torri di pietra risalenti a oltre 3000 anni fa.
I nuraghi sono misteriose strutture preistoriche con funzioni militari, funerarie o abitative. Accanto ai nuraghi, spesso si trovano tombe individuali o collettive in muratura, composte da cella, corridoio e ingresso, usate come aree cerimoniali.
Altri reperti archeologici includono le Tombe dei Giganti e le Domus de Janas (case delle fate), antiche sepolture scavate nella roccia. Le Janas, secondo la leggenda, sono delle piccole fate, a volte buone altre cattive e dispettose, che vivevano in piccoli buchi scavati nelle rocce (le cosiddette domus de janas) e uscivano solo di notte per non rovinarsi la pelle candida con i raggi di sole. Si dice che erano abili tessitrici e che possedevano e custodivano all’interno delle grotte dei tesori nascosti.
Una di queste”DOUMS DE JANAS”, chiamata Domus de Janas di Monte Nai, si trova a pochi passi dal parcheggio del Residence
Nel III millennio a.C. la Sardegna risente della corrente megalitica del Nord Europa, di cui oggi si possono ancora visitare i complessi di menhir, rappresentati da lastre di granito infisse nel terreno. La loro costruzione è da ricollegare al culto solare. Erano luoghi sacri per le tribù nuragiche.
nella zona di Piscina Rei si trova il Complesso megalitico “Cuili Piras”

Epoca Punica e Romana
Resti dell’età punica sono visibili nell’unico esemplare rimasto rappresentato dalla Fortezza di “Baccu di Monte Nai” risalente al V sec. A.C.
L’opera di colonizzazione da parte dei romani, avvenuta nel I secolo a.C, è presente nei resti di vari villaggi. Gli insediamenti, in quest’epoca, furono costruiti lungo le coste, buon punto d’approdo per le navi, o vicino ai complessi megalitici considerati luoghi con un particolare richiamo mistico.
Epoca Catalana/Aragonese
Le torri costiere della Sardegna hanno costituito un sistema difensivo, di avvistamento e di comunicazione della fascia costiera dell’isola. L’ubicazione delle torri era imposta sia dalla natura stessa della costa – alta o bassa e di conseguenza diversamente accessibile agli invasori. Le torri erano disposte in punti strategici da cui era possibile scrutare ampi tratti di mare; ciascuna di essere comunicava visivamente con le due adiacenti . Oltre ai fuochi segnaletici, costituiti da fiamme o fumate, ci si avvaleva dell’uso di segnali acustici prodotti da corni e campane e l’uso di un codice prestabilito permetteva il passaggio di informazioni dettagliate sull’entità dell’eventuale attacco nemico.
L’accesso alle torri avveniva attraverso una apertura posta ad una altezza di 4/6 metri dal suolo e vi si accedeva con l’ausilio di semplici scale in corda. Sulla terrazza era quasi sempre presente la “mezzaluna”, una struttura di forma semicircolare realizzata con canne e coppi, che poggiava sul parapetto, che aveva la funzione di dare riparo ai soldati e alle munizioni.
Sulla cima del Monte Ferru si trova una torre di quest’epoca.

IL MIRACOLO DEI REI.
Tra il 1875 e il 1956 questo enorme lembo di terra del Sarrabus, ammalato di malaria e solitudine è stato trasformato. La metamorfosi è costata vite, pazienza, competenza e coraggio.
La farfalla nata è quella che noi oggi conosciamo come uno dei territori più belli del sud Sardegna
Nel 1858, durante il periodo preunitario, il Granducato di Toscana decise di trasformare il carcere da semplice istituzione detentiva a luogo di recupero e rieducazione per i detenuti: I detenutlavoravano nei campi e con il bestiame. Con l’unificazione, i risultati della colonia penale agricola si estesero altrove. Fu scelta l’Asinara, un’isola ostile e sterile. Grazie al duro lavoro dei detenuti, gran parte dell’isola fu bonificata e resa adatta agli insediamenti urbani. Si decise così di avviare un ambizioso progetto di bonifica di altri territori paludosi e malsani.
La scelta cadde sul Sarrabus, un’altra regione paludosa e disabitata della Sardegna a causa della malaria.
In data 11 Agosto del 1875, in piena estate, il Cavaliere Eugenio CIngolani con trenta detenuti e sette guardie sbarcarono su Cala SINZIAS mettendo piede su quella spiaggia. Le spiagge dell’attuale zona di Costa rei erano disabitate.
Il gruppo si inoltrò con molta difficoltà nell’entro terra, vista la fitta vegetazione e l’inesistenza totale di sentieri. Il territorio era selvaggio e incontaminato.
L’obbiettivo dell’Ispettore Generale delle carceri era quello di stabilire una prima dimora, bonificare e risanare il territorio disabitato da 350 anni.
Successivamente arrivarono altri detenuti che aiutarono nell’opera di bonifica e di costruzione.
Dopo due anni nella zona erano già presenti più di trecento forzati, tutti in possesso di esperienze lavorative precedenti nell’edilizia.
Nel 1877 nasce sul promontorio di Praids, tra due ruscelli, la dimora dei carcerati.
Successivamente venne attivata una falegnameria, delle officine di fabbri, una carpenteria e una infermeria. Di certo non poteva mancare una chiesa; che ovviamente fu dedicata a San Basilide, il santo protettore degli Agenti di Custodia.

La colonia, era suddivisa in dodici edifici, dove ovviamente il più grande di questi era “la Centrale
All’interno della struttura principale oltre alle celle e gli alloggi per i carcerieri si trovava la farmacia, un pronto soccorso, un ufficio postale e una stazione telefonica.
Il dodicesimo edificio, denominato anche delle “Case ambulanti”, era formato da case ambulanti. Delle ingegnose case di legno tirate da buoi, introdotte nella colonia stessa per portare la mano d’opera dei corrigendi dove maggiore vi era il loro bisogno.
Nelle zone che risultavano più malsane, non ancora bonificate, venivano costruite delle sedi periferiche, case di legno, atte ad ospitare un numero non superiore ai dieci detenuti.
Il segnale d’inizio dei lavori quotidiani nella colonia era dato da una campana, che suonava itutti i giorni alle 7 del mattino, appena pronti a drappelli di venti persone, i detenuti provvisti degli attrezzi necessari venivano destinati ai lavori a loro affidati.
Alle finestre, per evitare il passaggio delle letali zanzare infette di malaria, venivano poste delle fitte reti metalliche.
Una giornata di duro lavoro fatto negli anni da migliaia di uomini in una campagna selvaggia, raccogliendo sassi, tagliando cisti ed estirpando la mala erba hanno reso questo territorio una volta infecondo, uno dei più produttivi di questa meravigliosa isola.
Le campagne furono ben presto bonificate e oltre alle coltivazioni di grano e orzo, si impiantarono frutteti, vigneti e uliveti. In pochi anni tra detenuti, agenti e impiegati con le rispettive famiglie, la colonia arrivò ad ospitare più di duemila persone, divenendo di fatto la più grande colonia penale d’Italia.
L’obiettivo primario della colonia puntava alla riqualificazione dell’area, ma anche al futuro reinserimento sociale dei corrigendi, i quali oltre ad imparare un mestiere ricevevano anche una scolarizzazione di base
Grazie a questo lavoro, la colonia non sono raggiunse l’indipendenza alimentare, ma riuscì a raggiungere un surplus nella produzione che venne dedicato alla commercializzazione. Le coltivazioni principali erano vigne, agrumeti, grano, cereali e legumi. I fitti boschi vennero in parte sfoltiti ed utilizzati per la produzione di carbone
i carcerati bonificarono, 6500 ettari. Impossibile guardarli o immaginarli tutti insieme.
Un numero scioccante quello dei morti anche a causa della malaria che è stata la maledizione lunga millenni
la colonia agricola cessò la propria attività nel 1952. La chiusura definitiva avvenne solo quattro anni più tardi, quando tutti i detenuti furono trasferiti in altre colonie penali, tra cui quelle di is Arenas e sull’isola dell’Asinara.
Oggi finalmente è possibile visitare questo prestigioso complesso penitenziario, dove una volta al suo interno, non sembra in verità di stare “tra la perduta gente”, ma in un luogo che trasuda forti sentimenti e testimonia il legame profondo instauratosi tra la comunità di Castiadas e quegli uomini che con abnegazione e dedizione, prestarono la propria preziosa opera di bonifica permettendo in tal modo la realizzazione dei primi insediamenti urbani del territorio.
Di quel periodo rimangono gli edifici feriti ma mai abbattuti, il grano e l’orzo selvatici che si incontrano durante le passeggiate estive, i mandorli e gli aranci ormai inselvatichiti, l’uva e i grandi eucalipti, i sentieri lastricati di pietra.
E fu così, che bonificato l’Inferno, il “paradiso” emerse in tutta la “meraviglia” che oggi vediamo.
ORIGINE DI COSTA REI
L’origine del nome è incerta.
Alcuni ritengono che il nome della località derivi da “costa del re”, in contrapposizione alla vicina Cala Reina. Altri sostengono che la storia del litorale sia legata alla colonia penale di Castiadas, dove – come visto – dal 1875 fino al 1956 si trovavano i colpevoli, ossia i rei. Quei Rei che hanno bonificato con il loro lavoro, con le loro vite 6500 ettari di questo territorio (65 chilometri quadrati)
Costa Rei e la sua spiaggia di sabbia bianca circondata dalla macchia mediterranea e da una natura selvaggia, rimase una zona isolata e quasi deserta popolata solo dai pastori che portavano gli animali a pascolare fino agli inizi degli anni sessanta.
Nel 1962, il ventiduenne belga Guido Van Alphen, scoprì questa località dal mare cristallino. Suo padre gestiva un’agenzia immobiliare in Belgio, ma gli affari andavano male. Il padre di Guido inviò il figlio per valutare investimenti in Sardegna, con due milioni di lire dell’epoca, circa 40 mila euro attuali.
Partirono da Bruxelles per Genova sulla loro auto, poi in nave fino a Porto Torres. Si fermarono ad Alghero e proseguirono verso Bosa senza trovare ciò che cercavano. Restava da esplorare la parte sud dell’isola vicino a Cagliari. Grazie al contatto con un geometra locale proseguirono verso est fino a Villasimius, allora un piccolo borgo di pescatori e carbonai. I prezzi dei terreni non erano vantaggiosi come credevano, e un altro professionista, consigliò loro di visitare terreni interessanti nel comune di Muravera, affacciati sul mare.
La strada era impegnativa, non asfaltata, bianca. Partirono da Villasimius e arrivarono a un bivio tra Castiadas e il mare, fermarono l’auto e proseguirono a piedi lungo un viottolo tracciato dai buoi. Salirono su una collina verde chiamata “Monte Turnu” e si aprì davanti a loro “uno spettacolo incredibile“. Quel Monte custodiva la vista di una spiaggia bianca che finiva in un mare turchese fino a “Capo Ferrato“. Tra la sabbia e la macchia mediterranea c’era il “Monte Nai” che dominava l’area. C’era anche uno stagno chiamato “Piscina Rei” e una collinetta, “Sa Punta Rei“.
Pare sia stato Van Alphen a dare il nome Costa Rei a quel territorio utilizzando delle vecchie cartine militari. Era la primavera del 1962, la natura dominava e tutto era incontaminato. Guido mostrò interesse per 80 ettari di terreno delle famiglie Demurtas e Mighela, vicino a Capo Ferrato, con oltre un chilometro di costa. Furono acquistati per 200 lire al metro quadro, per un totale di 160 milioni di lire.
Per emulare l’Aga Khan e la Costa Smeralda servivano molti soldi e finanziatori. Trovò quindi due soci: Eddy Schillemans, che voleva costruire un albergo (diventato poi il VILLA REI), e Frans Verhoeven, che desiderava realizzare un villaggio turistico. Nacque la “COSTA REI SPA“. Nel 1965, dopo 3 anni, furono completati l’albergo, alcune villette e un bar con piscina di acqua di mare. Il “Villa Rei” fu la prima struttura turistica sul litorale.
Successivamente arrivò a Costa Rei il giovane architetto belga Eric Balliu, vincitore del Premio Roma Architettura. Balliu progettò le prime case, integrate con l’ambiente, con un tetto piano ricoperto di terra per un giardino. L’idea era rendere invisibili le costruzioni nella macchia mediterranea, preservando lo scenario selvaggio e suggestivo di Costa Rei. (Questo è il motivo degli edifici del Residence)
A quel punto intervenne la “burocrazia italiana” e la legge “Ponte” per le zone balneari permetteva i permessi solo con piani di lottizzazione comunale, colpendo duramente i sogni di Guido Van Alphen.
I terreni non si potevano più vendere e non riuscì a saldare i proprietari, nonostante avesse investito in altri terreni a Monte Nai e Piscina Rei, che gli permisero di tirare avanti fino al 1967.
Yvan Verschelden e Herman Taillieu hanno quindi completato il progetto. Alla fine, perse tutto e i suoi sogni svanirono; tornò in patria. “In Sardegna – scrisse – non ho più niente. Solo il mio cuore è rimasto lì”.
